E poi c’è il sesso facile, veloce, consumato con sconosciuti incontrati su Tinder. Rapporti il cui l’unico sforzo è quello di individuare un uomo gradevole nelle vicinanze, alzare lo sguardo, riconoscersi, avvicinarsi, appartarsi.
L’amplesso con un clic, dopo una presentazione basica – ciao, piacere – e subito nel primo letto che capita, ma anche in luoghi più scomodi come il molo di un porto.
“Love” del registra e scrittore norvegese Dag Johan Haugerud, in Concorso alla 81.Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è il secondo capitolo della trilogia iniziata con “Sex”, premiato a Berlino.
Annunciato come uno dei titoli scandalo del Lido, in realtà “Love” è un film che parla di sesso senza mai mostrarlo.
La protagonista è Andrea Bræin Hovig – sul red carpet in abito di raso rosso amore – che interpreta il ruolo di Marianne, una dottoressa preparata, con buone amiche, dalla chioma bellissima, che potrebbe avere senza problemi un fidanzato e che invece sceglie di non legarsi a nessuno.
La donna viene iniziata all’uso dell’applicazione di incontri da Tor, un infermiere che lavora con lei, e che, grazie a Tinder, sul battello che ogni sera lo riporta a casa rimorchia che è un piacere.
Ci prova anche Marianne, con risultati soddisfacenti; tuttavia non è l’erotismo ciò che interessa al regista, bensì l’approccio a un amore, libero, disinvolto, fuori dalle convenzioni.
Mai Mostra del Cinema è stata tanto generosa sull’argomento. Il sesso omosessuale di “Queer” di Luca Guadagnino con Daniel Craig, quello nazional popolare di “Diva futura” di Giulia Louise Steigerwalt con Pietro Castellitto sull’agenzia di Riccardo Schicchi; quell’altro newyorkese di Nicole Kidman che in “Babygirl” va a letto con il giovane stagista per raggiungere l’orgasmo risolvendo fortunatamente il problema.
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