Mattia Berto regista

Mattia Berto: «Io sono teatro»

Mattia Berto è un uomo performance. Tutto, dentro, fuori, intorno a lui, è teatro, anche senza palcoscenico, né attori professionisti, davanti a un pubblico formato magari da un unico spettatore.

Le botteghe, i giardini, le scuole, i musei, il carcere, le boutique, gli alberghi, i campi di Venezia sono le scenografie dei suoi spettacoli, i residenti gli artisti, la vita della città il copione.

Mai pago, mai sazio, in perenne effervescenza, il regista, attore, illustratore, sarà il 21 maggio alle 17 al Goldoni con l’ultimo laboratorio del Teatro di Cittadinanza intitolato Tra valigie e desideri: storie di viaggi; in scena 100 bambini dell’Istituto San Francesco di Sales tra una moltitudine di bagagli, inclusi quelli regalati dal Fondaco dei Tedeschi.

Per dieci stagioni anima del Teatrino Groggia, Mattia Berto ha lavorato con artisti quali Serra Yilmaz, Lucia Poli, Stefano Benni per l’evento Ad alta Voce di Coop che lo scelse come regista insieme a Elia Romanelli; ha studiato e collaborato con Maurizio Scaparro, Gianni De Luigi; ha firmato decine di spettacoli tra cui Tempesta, la resa dei conti nel padiglione dell’Inghilterra alla Biennale Architettura 2019 e Shylock. Venezia oltre il denaro sul rapporto tra la città e i soldi.

Da dove arriva questa passione?

«Mia madre proviene da una famiglia di artisti, i Cadorin, mio padre è un ristoratore illuminato. Sono cresciuto tra gli stimoli più disparati. I miei genitori mi hanno sempre permesso di fare ciò che volevo».

Quando ha iniziato?

«A dieci anni ho fatto il primo corso di dizione con Marcella Duse. Più o meno alla stessa età ero già in scena: interpretavo uno dei bambini morti dell’Antologia di Spoon River».

Il Teatro di Cittadinanza al Goldoni

Nel 2016 dà vita al Teatro in bottega insieme alla fotografa Giorgia Chinellato, azioni teatrali site-specific uniche nel loro genere.

«Conobbi Giorgia, che è ingegnere, per un problema edilizio nella mia abitazione e siamo diventati amici. Un giorno mi propose di fare qualcosa insieme. Il salone di parrucchiere di sua madre, a San Zaccaria, si era liberato e così è nato il primo Teatro in bottega».

In quali altre botteghe siete entrati?

«Ovunque. In una macellaria a Rialto, da Barena, nella pasticceria Rizzardini a San Polo, in dieci negozi di San Francesco della Vigna per portare in scena le novelle del Decamerone».

Il luogo più potente?

«L’impresa di servizi funebri Fanello, a Santa Maria Formosa. I due fratelli Giulio e Cesare Fanello, persone squisite, mi hanno detto: noi non abbiamo clienti, abbiamo dolenti».

E com’è andata?

«La performance era una riflessione sulla vita e la morte. Ho sostituito i due proprietari con due bambini in piedi accanto a me, che ero nella bara e facevo il morto».

Non le ha fatto impressione?

«No, mi ha fatto venire mal di schiena».

In cosa consisteva lo spettacolo.

«Durava un giorno intero. Poteva entrare un solo spettatore per volta al quale i bambini rivolgevano domande del tipo, come sarà il tuo funerale? Una volta usciti, Giorgia scattava la loro ultima fotografia. Qualcuno fumava una sigaretta, altri piangevano».

Adulti e bambini all’Istituto Cavanis con Mattia Berto

L’azione teatrale più divertente?

«Nella pellicceria Caberlotto. Ho messo un gruppo di ragazze in vetrina. Sopra la pelliccia, sotto il bikini anni Cinquanta. Era la Venezia in vendita. Arrigo Cipriani ha fatto il trailer all’Harry’s Bar con un bicchiere di Bellini».

Altre performance indimenticabili?

«Partendo dal libro Corpo di Tiziano Scarpa, abbiamo fatto una riflessione sull’utilizzo del corpo nel negozio di tessuti Benevento, in Strada Nuova. Alcuni perfomer danzavano in vetrina e invitavano il pubblico a entrare e percorrere il green carpet che correva lungo il negozio».

Il risultato?

«E’ stato un successo incredibile. Il Teatro in bottega è diventato un docu-film nell’ambito del progetto Noi siamo cultura, prodotto dall’emittente televisiva La F di Feltrinelli, con la regia di Giuseppe Carrieri».

Perché ha scelto proprio la bottega?

«Perché la bottega è un palcoscenico naturale, un luogo della narrazione. Entri dal macellaio, vedi le persone, le ascolti e scopri un mondo di cose».

Il Teatro di Cittadinanza, in sinergia con il Teatro Stabile del Veneto, ora sta girando l’Italia. Com’è cresciuto nel tempo?

«Il Teatro Groggia è stato il primo laboratorio con i cittadini. Da lì è nata la convinzione che il teatro debba essere uno strumento di indagine sociale. All’inizio c’erano dieci donne e un ragazzo e abbiamo lavorato sulle loro storie. Poi il numero è aumentato».

Come funziona?

«Chiunque può iscriversi, il laboratorio dura 6-7 mesi, con prove tutti i mercoledì. Quest’anno abbiamo avuto 64 partecipanti, dai 18 agli 80 anni. Nel tempo, siamo andati ovunque, dalla Corte D’Assise alla sede di Banca Intesa Sanpaolo di campo Manin».

C’è qualcuno che non vi ha voluto?

«Nessuno, mai».

Che attori sono i veneziani?

«Recitano bene perché parlano di sé, sono naturali. Il mio obiettivo è usare il teatro per fare comunità, per stringere legami tra coloro che a Venezia ci vivono, per fare massa critica, anche per sentirsi meno soli».

Un altro laboratorio del Teatro di Cittadinanza al Goldoni

Chi sono?

«Abbiamo fette di città molto diverse. Un manager di 60 anni con i due figli, una ginecologa, un finanziere, due avvocatesse».

L’età media?

«Tra i 40 e i 60 anni, ma ho fatto un lavoro anche sulla quarta età, con gli over 80».

Ci sono anche molti bambini.

«Le scuole sono sempre coinvolte. Con un gruppo di studenti nel 2023 abbiamo realizzato il progetto Convito! Un banchetto per giovani in occasione dei 450 anni della Cena in casa di Levi di Paolo Veronese alle Gallerie dell’Accademia. Cittadini grandi e piccoli sono stati insieme all’istituto Cavanis, dove i bambini facevano gli insegnanti degli adulti».

Chi realizza i costumi?

«I costumi sono di Ildo Bonato e Roberto Piffer. Per Questa vita è un’Odissea, in Casa Rubelli, dopo l’acqua granda del 2019, abbiamo raccolto gli stivali usa e getta, li abbiamo tagliati e abbiamo realizzato la coda della sirena».

Sul suo profilo Instagram lei è chapelier_fou_venise. Perché?

«Perché incarno un cappellaio matto. Nella pazzia ci sono estro, imprevedibilità. La follia è un tema sul quale mi interrogo sempre. E naturalmente amo i cappelli, li indosso sempre. I più belli li trovo nell’atelier di Giuliana Longo».

Avrà un guardaroba pazzesco.

«Effettivamente ho una casa piena di cose. Ho tre armadioni belli grandi per abiti e cappelli, che spesso regalo o scambio».

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